Imola. Sulle prime colline alle spalle dell’Ospedale Nuovo, sorge, ormai in rovina, un maestoso edificio dal passato molto singolare.
E’ Villa Muggia, una delle ville italiane più prestigiose tra quelle realizzate negli anni Trenta del Novecento. Negli anni è stata via via conosciuta e apprezzata anche nel contesto internazionale, considerata uno dei gioielli del modernismo d’inizio ‘900. Vede la luce nell’ambito culturale del razionalismo, nel 1936, come adattamento e ampliamento di un casino di caccia settecentesco, parzialmente demolito e conservato nella parte più pregevole e scenografica, al quale venne accostata l’abitazione vera e propria dalle pure linee razionaliste. Il commendatore Umberto Muggia di Bologna affidò, agli architetti Piero Bottoni e Mario Pucci, l’incarico del progetto di recupero della villa costruita all’interno di un grandioso parco nel quale vennero edificati anche altri edifici significativi.
Tornano le visite guidate a Villa Muggia a cura del Comune di Imola all’interno della cornice di ‘Naturalmente Imola’: info qui
La notorietà di Villa Muggia sarà purtroppo demandata nel corso della seconda metà del novecento alle pubblicazioni e alle fotografie d’epoca; l’edificio ha avuto infatti vita brevissima, abbandonato già nel 1943 (i proprietari erano di origine ebrea), viene ridotto in rovina durante il secondo conflitto mondiale, spogliato di arredi e materiali pregiati. Durante la guerra infatti, la splendida villa divenne un comando dell’esercito tedesco, ma fu durante i bombardamenti che l’opera di distruzione venne ultimata: una bomba colpì il grande salone centrale, deturpando irrimediabilmente la struttura della villa.Da allora il gioiello architettonico creato da Bottoni e Pucci divenne sempre più opaco, alla mercé di vandalismi, intemperie e dell’inesorabile scorrere del tempo.Nella parte più conservata è ancora visibile, al suo interno, un grande tavolo in graniglia di marmo dal design raffinato ed elegante che, ancora oggi, dopo decenni, affascina e incanta.
IL PROGETTO DI PIERO BOTTONI PER VILLA MUGGIA – STUDIO
Villa Muggia e gli edifici annessi nel podere Bel Poggio a Imola e il circolo ippico Un «interessante lavoro tutto architettonico»: così Giò Ponti definisce nell’insieme l’intervento imolese di Bottoni e Pucci sul Bel Poggio imolese; insomma: architettura al massimo grado, senza aggettivi:
«Quando l’architetto Bottoni fu chiamato a studiare il problema della sistemazione di tutto il complesso della proprietà, egli dovette risolvere in realtà il problema di un piccolo piano regolatore» Si trattava di rendere possibile un duplice recupero: da un lato, approntare le strutture edilizie necessarie per il rilancio produttivo del podere; dall’altro, trasformare il rudere della villa settecentesca posta alla sommità del poggio – un’«isola di verde cupo sul piano della campagna coltivata» – così da farne una «moderna casa di campagna», dove il proprietario – il commerciante di carburanti e frutta, Umberto Muggia – avrebbe trascorso periodi di
vacanza con i tre figli (due dei quali sposati con prole).
La ridefinizione dei percorsi e la dislocazione delle attività rivelano una ricerca sapiente volta a contemperare i vari usi nel massimo rispetto dell’ambiente e avendo particolare riguardo alla difesa della privacy e alle relazioni fra i vari soggetti (le articolazioni del gruppo familiare del proprietario, la famiglia del giardiniere-contadino, quella del guardiano, gli autisti, i domestici, gli eventuali ospiti).
All’estremità nordest del poggio boscato, alla fine di un grande viale alberato, è situato un organismo composito in cui l’abitazione del contadino-giardiniere, la stalla e la serra si integrano, con la mediazione di un porticato e di un’aia, con gli alloggi degli autisti, l’autorimessa e la lavanderia: nell’insieme un nodo di servizi e un piccolo «porto»
veicolare, discosti ma sufficientemente prossimi alla villa.
A questa si può anche accedere dalla strada comunale più direttamente attraverso un morbido sentiero, la cui confluenza con il viale alberato all’ingresso della tenuta è brillantemente risolta da una distribuzione a esedra rimarcata da una pensilina. Mentre annuncia e sancisce la convivenza di lavoro agricolo e otium padronale, l’esedra trova il suo
naturale completamento nella casa del custode, la quale, vigile sui suoi pilotis, lo sguardo attento della lunga finestra a nastro, si fa avanti quasi a esprimere l’essenza stessa del
«fare la guardia»: un esempio del delicato intreccio di ironia e poesia che Bottoni ha tra le sue corde espressive,.
Poco più in là, al confine fra la macchia boschiva del parco padronale e la parte coltivata a viti si erge il complesso granaio-tinaia-cantina: E questa l’opera più delicata e intensa concepita dal razionalista milanese fino a quel momento: un piccolo gioiello che
segna un ulteriore avanzamento nella sua ricerca architettonica; quasi un’anticipazione delle opere magistrali che seguiranno a breve sul suolo bolognese. E come se, prima
di affrontare la prova di ridare vita all’edificio centrale della villa, Bottoni lavorasse ai suoi margini per raccogliere le energie e le intuizioni propulsive. E ne aveva bisogno. La fabbrica settecentesca – un palazzo nobiliare con probabile sottostante casa del contadino era ridotta a un rudere, condizione che esaltava la sordità dell’organismo e la sua refrattarietà a un recupero integrale. Eppure una sua parte, il grande salone di rappresentanza che Bottoni definisce «barocco», con la sua capacità di evocare feste, storie e sogni era lì a sfidare i cultori
delle nuove forme essenziali: sarebbero stati essi capaci di tenere in vita quel fascino misterioso consentendogli di intrecciarsi ai nuovi stili di vita?
Bottoni era tipo da raccogliere le sfide, e anzi da rilanciarle. Una volta deciso di conservare quella che a suo giudizio era la sola «parte veramente pregevole della villa», procede secondo due logiche parallele: per sottrazione-addizione e per contaminazione di antico e nuovo.
Eliminata la parte posteriore, dove un grande corridoio distribuiva ampie stanze prive di servizi, l’addizione è concepita come una congiunzione a incastro.
Ed è qui che opera più a fondo la contaminano. Il salone barocco è avvolto esternamente nelle forme pure di un parallelepipedo senza però rinunciare all’invitante movenza dello scalone esterno strombato; nel contempo il pavimento dell’interno, la cui quota originaria era a metri 2,85, è sottoposto a un geniale sovvertimento con il coinvolgimento della sottostante «cantina»: Nell’accogliere gli ospiti il salone fa anche da vestibolo monumentale, prendendo il posto dell’ ouverture che anticipa i temi compositivi di una sinfonia.
Il tema centrale in questo caso è il germinare della costruzione da un ordito di sguardi. Se già il «vestibolo» è un trionfo teatrale del guardare e dell’essere visti, alla sua quota inferiore, sotto e
nella direzione del «ponte», parte un cannocchiale visivo che attraversa l’intero organismo, incontrando in successione l’atrio della scala nuova, il patio con luce filtrata dall’alto, la sala da pranzo e infine il parco: un gioco di sfondamenti, di inviti e di diafani diaframmi che annunciano lo snodarsi della casa attorno al piccolo cortile interno, il quale, nel ristare di luci e penombre entro la selva amica del parco, rivela così la sua natura di piccola radura costruita. In questo patio-radura, nel quale si avverte l’eco dell’impluvium della casa romana, villa Muggia trova il suo cuore silente, un vuoto che è a sua volta origine e meta di sguardi e tensioni centripete e centrifughe. La grande «L» costituita dalla sala da pranzo e dalla successione di galleria, sala da musica e soggiorno calibra su tale vuoto opacità e trasparenze.
Mentre il salone è volutamente celato di fuori, per il resto l’involucro esteriore, magistralmente ritmato, annuncia la struttura interna della villa. La stessa presenza del patio è
percepibile all’esterno là dove, in una sorta di passaggio aereo posto sul lato ovest al primo piano, pensato anche come luogo per la ginnastica a prolungamento della stanza
del figlio scapolo, si tocca il punto più alto di compenetrazione del dentro e del fuori. E questo uno dei non pochi scorci mirabili di un capolavoro architettonico che ha
avuto una vita brevissima (meno di cinque anni) e di cui oggi ci è concesso avere limitata cognizione dalla documentazione iconografica e dai ruderi. I quali attendono
che un concorso di forze e intelligenze raccolga nuovamente la sfida per un atto rigeneratore.
SOTTO: Il libro su Villa Muggia (Thèodolite editore)
La descrizione a cura di Segni del Moderno:
Malgrado lunghi anni d’oblio, Villa Muggia a lmola continua a emanare il suo fascino di architettura misteriosa. Fascino che le deriva non solo dal mirabile innesto di volumi puri su un preesistente corpo settecentesco, ma anche da un destino che le ha consentito solo pochi anni di vero splendore; poi la guerra, gli anni dell’occupazione militare come sede di un comando dell’esercito tedesco ed infine la bomba che ha centrato il grande salone, “cuore” di tutto l’edificio. Da allora la villa realizzata da Piero Bottoni e Mario Pucci ha smesso di stupire, di incantare per la sua bellezza che non aveva paragoni tra le ville moderne di quel periodo.
Ciò che resta di Villa Muggia si sta consumando lentamente con quel suo ventre squarciato, rudere reso tragicamente silente dall’incuria e dalla violenza di chi ancora oggi infierisce su ciò che resta. Il parco della villa è ormai irrimediabilmente perso, ma dal 1979, l’intera area su cui è ubicata la villa è definita nelle tavole di P.R.G. di Imola come “zona a parco privato” che ne vincola le alberature, preservando l’intera area da speculazioni edilizie.
Decine di appelli, pubblicati su riviste internazionali di architettura e design, l’hanno fatta oggetto dell’azione di sensibilizzazione, volta alla tutela e al recupero.
Nel 1990, in concomitanza con la mostra milanese sull’opera di Piero Bottoni realizzata dall’archivio Piero Bottoni del Politecnico di Milano, si è risvegliata una certa attenzione sulla villa e successivamente, nel 1993 alla conferenza internazionale del DO.CO.MO.MO International a Eindhoven (Olanda), la necessità di salvare questo capolavoro del Moderno veniva posta all’attenzione internazionale sottolineando con preoccupazione il precario stato conservativo dell’edificio.
Dal 1994 anche questo “gioiello” del razionalismo italiano gode di vincolo storico-architettonico, dopo che l’Ordine degli Architetti della Provincia di Bologna, organizzò una raccolta di firme in favore della sua tutela. La naturale continuazione di questa azione fu l’emanazione da parte del Ministero dei beni culturali e ambientali del vincolo relativamente all’edificio della villa e alle pertinenze della vecchia proprietà dei Muggia.
Da allora è però sceso nuovamente il silenzio.
La villa e l’intero complesso continua però a essere meta ideale di studenti e ricercatori, segno che per il mondo scientifico Villa Muggia rimane un problema insoluto, oltre che un caso-studio da approfondire. Grazie al persistere di questo interesse, conosciamo molto della tecnica costruttiva, della metodologia con cui è stata realizzata: un vasto patrimonio di conoscenze prezioso per qualsiasi ipotesi di recupero ma anche per comprendere quanto tempo ancora la struttura potrà resistere alla nostra indifferenza.
Villa Muggia può e deve entrare in quella rosa di “eccellenze” di cui la città di Imola va orgogliosamente fiera. L’accostamento con gli altri simboli del panorama locale che proiettano il nome della città di Imola a livello internazionale – l’Autodromo Internazionale “Enzo e Dino Ferrari”, l’Accademia Pianistica Internazionale “Incontri col Maestro”, il Ristorante San Domenico e, ultimo, solo temporalmente, il Montecatone Rehabilitation Institute S.p. A. – non è azzardato.
Per la sua originalità e peculiarità, il recupero della villa valorizzerebbe ulteriormente il territorio e lo specifico caso-studio di grande interesse nel panorama ancora giovane del recupero del moderno a livello internazionale. Vorremmo che questa emergenza architettonica potesse entrare nell’agenda delle forze economiche e delle pubbliche amministrazioni a ogni livello per far sì che dalla sinergia possa nascere una nuova stagione per la villa di Belpoggio. Il rischio è la perdita di un manufatto architettonico che l’Europa ci invidia: la definitiva scomparsa di un patrimonio che ha già catalizzato interessanti studi e che potrà stimolare altre ricerche, soprattutto sul versante progettuale e realizzativo.