(foto copertina: C.Niccolai da Artisti Imolesi alla Biennale di Venezia,Fondazione CRI)
Anacleto Margotti, pittore, scrittore e critico d’arte. Insegnante di storia dell’arte a Imola. Le sue opere sono spesso orientate a soggetti ispirati ai paesaggi dalla Romagna, al duro lavoro nei campi dei contadini, mondo dal quale proveniva.
Nacque a San Potito di Lugo di Romagna il 2 ag. 1895, ultimogenito di Francesco, operaio, e di Filomena Bertuzzi.
A causa delle modeste condizioni economiche della famiglia sin da bambino iniziò a lavorare come bracciante agricolo e garzone, entrando poi come apprendista nella bottega di un decoratore, dove iniziò a impratichirsi nelle tecniche della tempera e dell’affresco. Sono proprio le modeste condizioni della famiglia a portarlo ad una visione della vita legata alla fatica del lavoro, forse la chiave più importante per accostarsi alle sue opere.
Parallelamente, mosso da una precoce vocazione artistica, incoraggiato dal sacerdote P. Rambelli, si dedicò al disegno e allo studio delle opere custodite nelle chiese dei dintorni. Nel 1917 Margotti riuscì a ottenere, durante una licenza, l’abilitazione all’insegnamento del disegno presso l’Accademia di belle arti di Bologna. Nello stesso anno perse il fratello Luigi Mario, caduto sul Carso; rimasto egli stesso ferito in combattimento, venne ricoverato in ospedale a Venezia, ove l’incontro con il pittore E. Notte lo incoraggiò nella propria determinazione di tentare la carriera artistica.
Dopo la guerra Margotti si stabilì a Imola, dove abitò sino alla morte insieme con la compagna Elvira Martelli. Nel dopoguerra pubblicò i romanzi Sfiducia (Bologna 1919) e Ombre di vita (Bologna-Imola 1922) nei quali appare partecipe della crisi vissuta in quel momento da gran parte della cultura europea. Non smise tuttavia di dipingere, realizzando nel 1919 la Vergine appare a s. Casciano per la chiesa di Rocca San Casciano e, insieme con Vespignani e N. Pasi, alcuni dipinti e decorazioni per il palazzo Ginnasi a Imola. Nel 1920 esordì, all’annuale rassegna bolognese dell’Associazione Francesco Francia, con uno Studio di Cristo, confermando negli anni successivi il suo interesse per l’arte sacra con una serie di opere destinate ad alcune chiese della zona: la Beata Teresa del Bambin Gesù del 1924 e il Sacro Cuore del 1925, entrambe a Imola, rispettivamente, nella chiesa del Carmine e in quella dei Servi; e ancora S. Pietro risana lo storpio del 1925 per la chiesa di Casola Canina.
LO STILE
Accanto alle opere di soggetto sacro, segnate da ascendenze classiche su cui s’innestano note di acuto realismo, prevale nella prima produzione del Margotti una predilezione per il ritratto, genere che poi non abbandonò mai del tutto, testimoniata da dipinti quali Monello del 1919 e Autoritratto del 1925 (conservati a Imola nella Raccolta d’arte Margotti), caratterizzati da una raffinata sensibilità formale e cromatica. Difatti, nonostante il contesto provinciale e appartato in cui avvenne la sua formazione da autodidatta, gli esordi del Margotti evidenziano già nelle prime prove note un linguaggio aggiornato e nutrito di suggestioni oscillanti fra la tradizione del verismo ottocentesco e la cultura postimpressionista, testimonianza del progressivo ampliarsi dei suoi riferimenti culturali, cui contribuirono, senza dubbio, anche i soggiorni a Vienna (1921) e a Parigi (1926).
Nel corso degli anni Venti raggiunse una certa notorietà partecipando a diverse mostre regionali, fra cui quella allestita nel 1926 a Modigliana in commemorazione di S. Lega, in cui espose sette dipinti che attirarono l’attenzione di C. Carrà il quale, l’anno seguente, lo presentò nella sua prima personale, tenutasi a Milano presso la galleria Celentano, sottolineando la vocazione «popolare» e realistica della sua pittura, espressa con accenti particolarmente felici soprattutto nelle scene ispirate alla vita e al lavoro contadino.
Parallelamente a questa fitta attività espositiva, destinata negli anni seguenti a intensificarsi ulteriormente, Margotti non abbandonò la pratica della scrittura, avviando, già dagli anni Venti, diverse collaborazioni come critico d’arte con varie testate, quali, fra le altre, Il Resto del carlino, La Stampa, Il Popolo d’Italia. Nel 1936, inoltre, iniziò a insegnare storia dell’arte al liceo classico di Imola, ottenendo, dopo la Liberazione, il posto di ruolo per titoli.
Già dalla fine degli anni Venti Margotti cominciò a orientarsi sempre più decisamente verso soggetti ispirati ai paesaggi della Romagna, alla vita agreste e al lavoro contadino resi mediante un linguaggio pittorico in cui, gradualmente, la vena veristico-naturalistica degli esordi tende a coniugarsi con un sintetismo di ascendenza novecentista, evoluzione cui certo non fu estranea la meditazione sulla lezione di Carrà e di Sironi, evidente in opere quali Antica aratura o Tre lavandaie (ambedue del 1936: Imola, Raccolta d’arte Margotti). Nei numerosi dipinti di questi anni la celebrazione del mondo contadino si traduce difatti in composizioni sintetiche, dai volumi squadrati, rese con larghe stesure di colore in cui, tuttavia, sovente le figure appaiono animate da un’interna componente dinamica, riconducibile forse alla matrice futurista. Grazie anche a tale ricchezza di suggestioni ravvisabile nella sua pittura, fra cui una genuinità di umori e un’antiretorica non distante da quella propugnata da Strapaese, i decenni fra le due guerre furono caratterizzati da un consenso crescente.
Fra il 1944 e il 1945 il M. lasciò Imola e si rifugiò sulle colline limitrofe, realizzando in questo periodo una serie di disegni dal segno marcato e sintetico che, grazie all’incoraggiamento di R. De Grada, verranno pubblicati dopo la guerra. Dalla fine degli anni Quaranta, ripresa l’attività di insegnante e di critico, il Margotti tornò a presentare le sue opere nelle maggiori mostre nazionali, partecipando alla Biennale di Venezia nel 1948 e nel 1950 e a tutte le Quadriennali di Roma dal 1948 al 1959.
Anche nel secondo dopoguerra il Margotti rimase, secondo Solmi, fedele alla propria poetica di interprete di un «mondo georgico», confermando, nel clima fortemente ideologizzato di quegli anni, il suo orientamento verso il realismo con una pittura animata, come sempre, da una profonda adesione sentimentale più che da istanze di carattere sociale. Nel corso dei decenni successivi, difatti, il Margotti continuò ad arricchire il consueto repertorio di motivi (fra cui, particolarmente ricorrente, il tema della raccolta dei fragoloni) con opere di corposa vitalità caratterizzate da un ductus sintetico e da stesure cromatiche larghe e pastose, indirizzandosi, già a partire dalla fine degli anni Quaranta, verso soluzioni di sempre maggiore dinamismo compositivo e intensa vivacità cromatica, come testimoniano dipinti quali Raccolta dei covoni del 1949; Tre romagnole del 1959; Ortolane del 1968 (Imola, Raccolta d’arte Margotti). Tale ricerca, approfondita nel corso dei decenni successivi, portò il M. a una strutturazione sempre più sintetica e dinamica dell’immagine, arricchita da un cromatismo brillante, talvolta quasi dirompente, come illustrato dalle tele realizzate nei primi anni Settanta, quali Donne che riposano e L’ombrellone rosso (ambedue del 1970 e conservate nella Raccolta d’arte Margotti).
Dopo il 1960, anno in cui la città di Firenze gli dedicò una prima importante antologica, numerose altre personali celebrarono l’artista e contribuirono a tenerne viva la notorietà (1962, Milano; 1963, Torino; 1968, Roma; 1971, Imola; 1983, Bologna). Fra i numerosi riconoscimenti tributati in questi anni al pittore e alla sua ormai pluridecennale attività – rievocata dallo stesso M. nell’autobiografico Vita d’arte (Bologna 1967) – si ricorda inoltre il documentario Un uomo che dipinge, girato nel 1969 da E.G. Laura, direttore della Mostra del cinema di Venezia, e ambientato fra lo studio del M. a Imola e le campagne limitrofe che, come sempre, continuavano a offrirgli inesauribili spunti d’ispirazione. Nonostante l’avanzare dell’età, il M. continuò a dipingere con tenace passione sino agli ultimi anni, realizzando nel 1974 anche una grande pala raffigurante il Battesimo di Cristo, in sostituzione della tela da lui stesso dipinta nel 1914 per la chiesa di Alfonsine, distrutta durante i bombardamenti del 1944.
Nel 1975 il Margotti donò un nucleo consistente della propria produzione (250 dipinti e 150 disegni) alla Cassa di risparmio di Imola, affinché restasse nella sua città d’adozione, istituendo in tal modo la Raccolta d’arte Margotti; mentre nel 1981 una serie di opere a soggetto sacro, genere che il pittore non aveva mai abbandonato del tutto, furono donate al Museo diocesano della città; nello stesso anno un suo Autoritratto (1925) entrò a far parte della Galleria degli Uffizi.
Anacleto Margotti morì a Imola il 3 maggio 1984.
(Bottega Gollini) – (Musei Imola)
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