Il caso venne chiuso in fretta e furia poche settimane più tardi, ma la strage di Bagnara, derubricata come “il raptus del Carabiniere” è tornata a far parlare. Sottovoce, tra gli stretti vicoli dell’abitato medioevale, ancora si parla di quel 16 novembre 1988. Tutti i bagnaresi ricordano dove si trovavano e cosa facevano in quello che per loro è considerato un vero e proprio “11 settembre” locale. Che ha rappresentato un giro di boa nell’esistenza della borgata di confine tra le province di Ravenna e di Bologna. Una strage capace di far ammutolire anche i giallisti più blasonati, che non ne hanno mai parlato, chissà perché. Poi, dopo 32 anni, un giovane scrittore, originario del paese di una delle vittime, decide di intingere il calamaio e di compiere un’opera davvero sorprendente. Riuscendo di conseguenza a far sì che si torni a parlare di quella tragica e strana vicenda.
Senza strafare, Daniele Amitrano – questo il nome dell’autore – firma un romanzo di sostanza (con la collaborazione di Marco Conte) senza mai allungare il brodo e appassionando il lettore. In un crescendo che comincia pochi mesi prima dell’eccidio, quando il Brigadiere Chianese prende in mano la Caserma di Via Garibaldi. Il libro sfocia con i 111 colpi di mitraglietta che mettono fine senza alcuna spiegazione, all’esistenza di tutti i militari che la componevano. Se ne salva soltanto uno, che è in licenza. Il quale farà di tutto per non mettere piu piede da quelle parti. Chianese, come gli altri suoi colleghi, erano tutti Carabinieri in servizio a Bagnara da pochi mesi. Strano, forse. I precedenti militari erano stati tutti sostituiti da poco. Perché? Dalla penna di Daniele Amitrano, l’appassionato scrittore di questo best seller –“111 Biglie d’Acciaio” (edito da 13Lab, casa editrice di Milano) impariamo a conoscere chi era il Brigadiere Chianese. Giovane, ma già molto esperto. Con grande senso di responsabilità. Dal romanzo osserviamo un ritratto di un uomo molto preoccupato, provato dal lavoro delle ultime settimane.
Una strage anomala. Molto strana. Che Amitrano romanza come l’epilogo di un regolamento di conti ai danni di Carabinieri che avevano scoperto un collegamento tra forze dell’ordine e malavita. Una criminalità organizzata che doveva continuare ad operare indisturbata nel tranquillo territorio della Bassa Romagna. Tutti fatti che come l’autore tiene a sottolineare “sono di pura fantasia e sono stati inseriti nel manoscritto al solo scopo di poter romanzare.”
Tuttavia si tratta di una strage avvenuta poco dopo gli anni di piombo, caratterizzato da altri strani omicidi che avevano come unico comune denominatore la divisa: i fratelli Savi della Banda della Uno Bianca, l’omicidio Minguzzi di Alfonsine, un giovane carabiniere di leva sequestrato la notte del 21 aprile 1987, strangolato poi gettato nel fiume Po. Ma anche l’esecuzione di Roberto Ruffilli ad opera delle Brigate Rosse, nell’aprile dell’88. Pochi mesi dopo la nascita del nuovo Governo presieduto da De Mita, che proprio Ruffilli aveva contribuito a creare. E soltanto sei mesi più tardi, l’eccidio di Bagnara.
Un Carabiniere che giustizia tutti i suoi colleghi (secondo la tesi ufficiale) scaricandogli contro i proiettili di tutte le armi d’ordinanza – tre mitragliette M12, una pistola calibro 9 parabellum e un’altra pistola, una beretta 92S – senza che mai nessuno dei suoi colleghi, Brigadiere Chianese compreso, abbia mai il tempo di sparare un solo colpo. Come può essere? È normale, oppure no? Anche Daniele Amitrano la pensa così “Senz’altro è la circostanza più anomala della ricostruzione fatta, quella della dinamica. Nessuno che abbia avuto il tempo di sparare, eppure le armi le avevano anche egli altri Carabinieri”. Addirittura il corpo del Brigadiere Chianese viene rinvenuto davanti alla sua scrivania. Per terra, in mezzo alla stanza c’è il cadavere di Daniele Fabbri, vent’enne in servizio di leva. Vicino a lui giace a terra il Carabiniere scelto Angelo Quaglia, ventisettenne del teramano. E poi Paolo Camesasca, di soli vent’anni, anche lui ausiliario di Verano Brianza. Si trova a pochi metri, nella stessa stanza. Infine colui individuato come l’autore della strage, Antonio Mantella, riverso vicino alla porta. Originario di Vibo Valentia, di trentuno anni, si è suicidato con un colpo di pistola alla tempia dopo aver compiuto l’eccidio. La breve inchiesta condotta all’epoca dal magistrato della Procura di Ravenna, individua nel giovane calabrese ogni responsabilità per quell’eccidio, insita in un raptus che lo avrebbe condotto a far fuoco sui suoi colleghi. Infine, a togliersi la vita con la pistola del suo collega Paolo Camesasca, appena morto. Le perplessità ritornano sulla dinamica della sparatoria. Un Mantella che si trasforma in una sorta di Rambo il quale, prima scarica sui commilitoni la sua pistola automatica, ma intanto (mentre è scarica) ha il tempo di sfilare dalle mani dei suoi colleghi le mitragliette M12: senza incontrare alcuna resistenza. Ripetendo la stessa sequenza del svuotare tutti e tre i caricatori. Dobbiamo pensare che nel frattempo in cui avvengono tutte queste operazioni, gli altri quattro militari si siano come paralizzati e non abbiano fatto resistenza. O non abbiano potuto. Forse c’erano altre persone ad impedirglielo? Considerando che erano tutti a pochi metri di distanza.
Pochi minuti prima, Mantella si trovava in pattuglia appiedata col collega Fabbri per le vie del centro. Sono tranquilli, bevono un aperitivo analcolico, chiacchierano. Poi, verso le 12.15, vengono visti dal postino mentre si dirigono “con passo svelto” verso la Caserma. Sono in anticipo rispetto alla fine del turno. Il clima è fino a quel momento disteso. Tra l’altro la sera prima tutti i colleghi, assieme alle loro famiglie, sono andati a cena insieme.
Intanto, nella palazzina di Via Garibaldi, Chianese e il Carabiniere Quaglia sono appena rientrati dalla Caserma di Massa Lombarda. Arrivano anche Fabbri e Mantella. I colleghi hanno un confronto. Poi, la strage. Al piano inferiore c’è l’appartamento della famiglia Chianese, rilevato proprio all’interno della Caserma. La moglie del Brigadiere è sola in casa. 111 “biglie d’acciaio” cadono sul pavimento, così come le ricorda la vedova Chianese. Non pensa a una raffica di proiettili. Ma a uno strano rumore, che ricorda proprio delle biglie che cadono su a terra. Non ha mai sentito una detonazione d’arma da fuoco in vita sua, non sa cosa sia. I proiettili finiscono anche fuori dalla finestra. Alcuni infilzano addirittura la carrozzeria di un auto posteggiata in strada. Al piano superiore, tutto tace.
Intanto, da Via Pilastrino arrivano i primi soccorsi. Una Fiat Uno dei Carabinieri, lanciata ai 180kmh che per quella strada, a quella velocità non si era mai vista. “Sembrava un Ferrari” ricorda uno dei residenti. “Pensavo a una rapina in zona”. Poi un’altra Uno, poi un’altra ancora. Poi un’ambulanza. E poi anche un elicottero. I residenti iniziano a preoccuparsi ed escono dalle case, avvicinandosi a Piazza della Repubblica, vicino alla Caserma dove si è consumato l’eccidio.
Si inizia a spargere rapidamente la voce che si sia trattato di un attentato terroristico. Macché. Una scena da macelleria messicana si presenta agli occhi dei primi arrivati.
Sfogliando le pagine di “111 Biglie d’Acciaio” leggiamo di alcuni moventi, come sottolinea l’autore, di fantasia. L’ombra di Gladio. Piste che però vengono già sfiorate da alcuni articoli di giornale antecedenti l’uscita del libro. E che non si possono di certo trascurare.
Una di queste recita come sulla strage di Bagnara di Romagna siano circolate molte ipotesi. Anche le più disparate. “Come un traffico di droga e di auto rubate” in cui Mantella sarebbe stato coinvolto. Di qualche legame dello stesso carabiniere “con una brutta storia di estorsioni” che, anni prima, aveva visto coinvolti alcuni carabinieri di Alfonsine, un comune non distante da Bagnara. E anche di un “nascondiglio di armi della struttura clandestina di Gladio”, all’epoca ancora operante, scoperto per caso e il cui contenuto sarebbe finito in mano ad altri appartenenti alle Forze dell’Ordine, proprio – ma è un’ipotesi questa solo fantasiosa – ai poliziotti killer della Uno Bianca.
Ipotesi, queste, poco approfondite dalla magistratura e che proprio per questo lasciano aperti mille dubbi sulla strage di Bagnara. E poi fu proprio Mantella ad uccidere i quattro colleghi, prima di suicidarsi, o quell’orrenda scena nella caserma di Bagnara “fu costruita da qualcuno che, dopo aver straziato i corpi dei cinque militari, inscenò il suicidio di Antonio Mantella?” Alcuni testimoni hanno riferito – rifiutandosi però di verbalizzare – che prima dell’arrivo del magistrato la caserma “fu visitata da uomini in borghese” che, con i corpi ancora caldi dei cinque carabinieri, “frugò da cima o fondo la stanza della strage, portando via molti documenti”. Uomini dei servizi segreti in missione?
Intanto, il caso finisce al Senato, con un interrogazione firmata a più mani, che però non ha molto seguito dopo un clamore e un’indignazione iniziale. Indignazione, subito spenta dall’indagine che indica nel “Raptus” la ragione di quella mattanza. Manca soprattutto il movente, però. A Bagnara, alcuni anziani ricordano bene. Qualcuno abbozza pure che il movente della strage sia da ricercare in questioni di gelosia. C’è chi ricorda molto bene anche il giorno dei funerali solenni dei cinque carabinieri, che vennero deposti dentro a cinque bare tutte senza nome. Tutte uguali. Le esequie avvennero al Comando Generale dell’Arma di Ravenna. E dovettero concludersi abbastanza in fretta, sempre secondo alcuni presenti, per evitare tensioni tra parenti.
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